Teatro

ALVARO PICCARDI ... E IL TEATRO ITALIANO: GRANDI NOMI E ALCUNE RIFLESSIONI

ALVARO PICCARDI ... E IL TEATRO ITALIANO: GRANDI NOMI E ALCUNE RIFLESSIONI

Alvaro Piccardi è stato a L’Aquila dal 18 al 22 ottobre 2011 per tenere un laboratorio teatrale dal titolo “Il gioco del teatro”, organizzato da Federico Fiorenza e Antonia Renzella.
Piccardi è nato come attore, ma si è presto diretto in direzione dell’arte registica ed è molto “ambito” come maestro. Tra l’altro, è ricordato spesso come insegnante della Bottega teatrale di Vittorio Gassman a Firenze, della scuola di teatro dell’I.N.D.A a Siracusa, del Laboratorio di esercitazioni sceniche di Gigi Proietti a Roma, dell’Act Multimedia di Cinecittà a Roma, e poi le collaborazioni col Teatro Stabile della Calabria, la neonata accademia che egli dirige al Teatro Quirino di Roma e i laboratori che conduce in tutta Italia.
Nell’intervista che segue ha parlato di sè e del teatro italiano in genere, ricordando momenti chiave del teatro italiano contemporaneo e regalando perle di cultura attoriale e registica che solo un uomo che è ha collaborato con grandi nomi, che è passato attraverso epocali cambiamenti del teatro italiano (la fine del grande attore, la nascita della regia e dei teatri stabili, le cooperative degli anni ’60-‘70 e i problemi socio-economici che il teatro attraversa oggigiorno) e che conosce bene anche il teatro europeo (quello francese dell’ammirata Ariadne Mnouchkine e quello tedesco dello Schaubühne), può donare.
La sua carriera artistica si è divisa tra teatro, radio, cinema e sceneggiati/fiction tv... sempre con i più grandi nomi dello spettacolo italiano, ma l’intervista che gli ho fatto riguarda sopratutto il teatro.

Maestro, lei ha cominciato a fare l’attore da giovanissimo...
A.P.: No, non sono figlio d’arte. Non sono figlio d’arte. La mia mamma (son sempre le mamme che fanno le scelte!) era appassionata di teatro... E lì, nel mio paese, che è Ponte San Pietro, vicino a Bergamo, c’era una insegnante di danza che faceva un po’ la regista, con la quale facevamo degli spettacoli per il paese e... prendevamo in giro un po’ le varie situazioni del paese. Io facevo il presentatore. Avevo il frac (era molto carino)... e io ho cominciato così. Poi sono entrato alla radio recitando una poesia in bergamasco in una competizione regionale.
Il regista mi conobbe e disse: “Impara la dizione e ti facciamo fare qualcosa”.
E infatti così avvenne... Così avvenne... E feci 2 trasmissioni radiofoniche. Poi da lì Calindri cercava un ragazzino per fare la parte del cadetto Winslow (nella versione teatrale e poi nello sceneggiato per la RAI di “Il cadetto Winslow”, di Terence Rattingan, regia di Ernesto Calindri, 1954, ndr) e io feci il provino,... mi fece fare il protagonista ed ebbe un grande esito. E quindi entrai nell’ambiente.

Poi, dal ’69 all’’80 ha fatto parte del Gruppo della Rocca...
A.P.: L’idea nacque da attori del Piccolo Teatro di Milano che avevano voglia di gestire direttamente il proprio lavoro sia dal punto di vista, come dire?, organizzativo e produttivo, sia anche dal punto di vista artistico... Non tanto che tutti facevano tutto, ma si sceglievano insieme i testi in assemblea, si discutevano... Poi c’erano i ruoli: il regista, lo scenografo,... eccetera. Però la discussione era veramente collettiva. Era un grande periodo, il ‘68! E il ’68 investì anche coloro che avevano sentito il profumo di questa società che cambiava.

Lei insegna teatro da tanti anni. Trova che ci siano differenze tra gli aspiranti attori di oggi e quelli di dieci o venti anni fa, oppure tra quelli del laboratorio che Lei sta tenendo qui a L’Aquila e quelli di altre parti d’Italia?
A.P.: Sicuramente sì. Sicuramente sì, nel senso che... oggi mi sembra che ci sia una maggiore ... non ci siano grandi, come dire?, “schemi” che impediscano di lavorare. C’è la voglia di fare... Mentre invece prima o c’erano dei problemi ideologici oppure professionali per cui uno aveva dei pregiudizi, magari anche interessanti... ma, insomma, quando poi si fa questo lavoro, si fa un laboratorio: uno anche se non lo condivide però lo fa. C’è una maggiore disponibilità, una maggiore apertura.

Lei ha lavorato come dei mostri sacri del teatro italiano, come Gassman, Strehler e altri artisti, registi e attori che oggi purtroppo non ci sono più. Lei che cosa pensa che manchi alle nuove leve per raggiungere i livelli che erano di Gassman, di Strehler o comunque di questi artisti?
A.P.: Lì c’era un rapporto molto profondo, per quello che riguarda gli attori, con la tradizione del “migliore” dal punto di vista della recitazione, che oggi non esiste più. E poi c’erano anche delle personalità molto forti... delle tensioni molto forti nel fare questo mestiere. Questi uomini erano il frutto di una stagione, ... il frutto di una stagione molto intensa sia dal punto di vista politico che dal punto di vista culturale che si rifletteva nel loro modo di concepire la professione. Facciamo il caso di Strehler che addirittura fu grande non soltanto perchè fece qualche spettacolo eccezionale (anche più di “qualche”, tanti ce ne sono!) ma perchè inventò una nuova struttura che era il Piccolo Teatro della città di Milano. E quindi... l’invenzione del teatro pubblico che non esisteva! ... Esistevano solo le compagnie private. Il teatro pubblico fu una svolta importante nella storia del teatro italiano perchè riconsegnò agli artisti la possibilità di decidere quale repertorio fare, non soltanto finalizzato a scopi commerciali, ma a scopi sopratutto culturali.

Lei pensa che oggi ci sia un attore o un regista che si avvicini a quei livelli di bravura?
A.P.: Sì, ... non è che io pensi che... A differenza di alcuni esponenti del teatro italiano che fanno gli atelier per i geni (Albertazzi ha fatto un atelier per i geni) io non credo nel genio. Credo nella capacità di lavorare molto bene cercando di capire che cos’è questo mestiere. Interrogandosi sempre sulle fonti della comunicazione teatrale, sulle ragioni profonde per cui lo si fa. E poi può capitare allora che nasca anche qualcosa di geniale. Ma se uno cerca il genio trova aria.
Non è più tempo di geni. Secondo me è meglio... Carmelo Bene certo che era geniale... Proietti, o Benigni non han fatto nessuna scuola, non han fatto nessun laboratorio...

Sono talenti naturali...
A.P.: Son talenti naturali. Però io penso che possa essere coltivato questo mestiere, lasciando aperta la possibilità che possa anche diventare arte.

Lei è stato docente di commedia dell’arte in Polonia...
A.P.: Sì. Ma come fa a sapere tutte queste cose?

Mi sono documentata.
A.P.: Internet!

Io so che nei Paesi dell’est la commedia dell’arte è molto importante, mentre invece qui in Italia dove la commedia dell’arte è nata, questa tradizione si è persa...
A.P.: E’ una storia vecchia. Noi siamo gli inventori di tutti i generi teatrali: la commedia dell’arte, la commedia del ‘500, il realismo con Goldoni, il confine sottile fra interprete e attore, essere umano, persona,... tra persona-interprete e personaggio (che è quello che stiamo facendo noi - nel laboratorio “Il gioco del teatro” a L’Aquila, ndr). Pirandello l’ha teorizzato concretamente. Però siamo anche quelli che fanno, come dire?, meno di tutti per valorizzare questi grandi patrimoni. In altri Paesi farebbero fondazioni,... cioè avrebbero a cuore la salva guardia di un patrimonio incredibile. Purtroppo noi non lo facciamo.
E io ho imparato a usare la maschera della commedia dell’arte da un guatemalteco (sottolinea con la voce questa parola, ndr)...

Addirittura?
A.P.: Sì, (si chiama Mario Gonzalez e è il più grande Pantalone della storia europea) perchè in Italia, Carlo Boso che è un grande maestro di commedia dell’arte è dovuto andare in Francia per fondare una scuola sulla commedia dell’arte.
È così. È il nostro Paese non sa valorizzare le proprie risorse sia umane che artistiche in genere.

Lei pensa che un attore bravo che interpreti il teatro tradizionale debba conoscere anche queste tecniche di commedia dell’arte oppure il teatro sperimentale? O, invece, pensa che un attore di teatro tradizionale possa concentrarsi solo in un genere e tralasciare la conoscenza di queste altre cose?
A.P.: Non ci sono regole. Nel senso che Ferruccio Soleri fa l’Arlecchino. E fa solo l’Arlecchino da 40-50-60 anni. Quindi è una conferma di una regola.
E invece ci sono attori che hanno una versatilità maggiore... Non ci sono regole. Io sono anche dell’idea che gli attori bravi non necessariamente devono saper fare tutto.
Anzi gli attori bravi sono quelli che sanno lavorare dentro i propri limiti e valorizzarsi.
Sordi ha fatto lo stesso personaggio per un sacco di film e lo ha fatto talmente bene che meno male che lo ha fatto!
Però ci sono attori anche moto versatili. Gassman era uno che faceva Alfieri e faceva contemporaneamente Brancaleone (film “L’armata Brancaleone” regia di Mario Monicelli, 1966, ndr). Forse era più bravo nel Brancaleone che nell’Alfieri.
Per cui, capite?, ci sono vari modi. È difficile stabilire delle regole. La lascerei aperta allo sviluppo della personalità e delle proprie attitudini.

Adesso vorrei farLe una domanda un po’ più contemporanea e sociale: un tema caldo degli ultimi giorni. Con i tagli economici alla cultura, secondo lei il teatro che direzione prenderà: diventerà un’arte di nicchia, oppure ci sarà una prevalenza di teatro di medio-basso livello o amatoriale?
A.P.: Sparisce! E’ molto semplice. Se non ci sono i soldi il teatro muore.
Quindi... Non so chi sopravviverà. Sopravviverà chi ce la fa... Non so se sarà di nicchia, se sarà di... oppure potrebbero essere quelli che riescono a fare i soldi e a incassare. E allora il discorso è: quelli che riescono ad avere un ritorno economico.
Non ho assolutamente idea. So che se va avanti così: fine. Quindi... La fine è per tutti, sopratutto per chi ci crede.
È un problema che in questo Paese si presenta con aspetti molto drammatici. Abbiamo una classe dirigente attualmente incolta e sostanzialmente stupida che non sa valorizzare, anche lì, non soltanto il settore del teatro ma anche la cultura.
Questo è un Paese di risorse turistiche e artistiche eccezionali che bisogna assolutamente valorizzare.

Lei ha fatto di recente, nel 2004, lo sceneggiato radiofonico “Bounty” su Radiodue. È una cosa un po’ strana perchè la prosa radiofonica sembrava praticamente sparita...
A.P.: La prosa in radio non è sparita.
Io mi ricordo di quando ero ragazzino, avevo 10 anni, ci si metteva lì e si ascoltava la radio, i romanzi radiofonici, le commedie... Proprio, ci si metteva lì e ascoltavi!
Era una cosa veramente fantastica.
Anche perchè rispetto alla televisione che definisce formalmente (anche i film, tu lo vedi, hanno una definizione formale definita), la radio è un suono e quindi ti permetteva di avere un’immaginazione, di immaginare... ti immaginavi all’ascolto. E questo era molto interessante. Credo sia stato formativo per me.

C’è un autore teatrale che secondo lei viene poco considerato e che invece andrebbe rivalutato e rappresentato?
A.P.: Oh, sai, da noi è pieno! Da noi è pieno di autori che non vengono rappresentati! Io ho fatto di recente (05 luglio 2011, al Teatro Quirino di Roma, ndr) come saggio-spettacolo per gli allievi del II anno dell’Act Multimedia un testo di Botho Strauss, “Trilogia del rivedersi” che non è mai stato rappresentato in Italia.
E tutta quella drammaturgia lì ... si dice “Oddio! Ah i tedeschi no, no!”
Ci sono dei preconcetti, delle stupidità gigantesche in questo Paese!
C’è poca disponibilità a conoscere di più quello che fanno gli altri.
C’era una volta al Teatro Valle, l’ETI o Teatro Stabile, la Marinelli, Ida Marinelli, organizzava degli spettacoli che venivano dall’estero e io ero uno dei pochi teatranti italiani che andava a vederli tutti.
C’è un’indifferenza, una stupidità che è veramente colpevole, secondo me, perchè solo dal confronto, dallo scambio nasce la possibilità di entusiasmarsi, di ripensare (enfatizza questa parola, ndr) questo lavoro. Sennò uno l’ha pensato una volta per tutte e così è. Non funziona, non funziona!

Secondo lei, per quale motivo, in Italia che è la patria del teatro (e dei generi e metodi più diffusi in Occidente), non è nata anche la regia. Sappiamo infatti che la regia è nata con artisti del calibro di Stanislavskij, Meyerchold,... nei Paesi del centro ed est Europa, mentre invece i primi registi italiani sono del secondo dopo-guerra. Lei, che ha lavorato con Strehler (che è considerato il primo e uno dei più grandi registi italiani) che motivazione può dare di questo ritardo?
A.P.: Be’ lì c’è stato il Fascismo. Il Fascismo ha chiuso tutto, non c’era più rapporto con quello che succedeva all’estero, ... Il cinema che si faceva era quello dei telefoni bianchi. E il teatro che si faceva era quello del grande repertorio (che non era neanche male!) del capocomico e del grande attore.
C’è stato Pirandello. Pirandello era anche regista. Non è che non c’è stato! Pirandello era anche regista. In quella situazione lì, però Pirandello ha dovuto tenere conto di questa struttura.
Cioè: il capocomico è l’attore protagonista di una compagnia, in quanto produce, è il protagonista degli spettacoli e accanto a lui ha delle figure che sono, come dire?, fisse: primo attore, prima attrice, caratterista, promiscuo, seconda attrice e attor giovane. Quella era la compagnia.
Tutti dovevano comprarsi gli abiti ... perchè non li passava il produttore gli abiti.
Ognuno doveva avere il suo repertorio di vestiti. E quella era la compagnia, dove si facevano dei repertori fissi. Le novità erano pochissime. Si facevano dei repertori che erano quelli, perchè non c’era lo spazio di libertà culturale in un Paese oppresso dalla dittatura dove si faceva presto a incorrere nella maglie della censura.
Mentre, negli altri Paesi c’erano i Piscator, Cocteau, i Copeau, c’erano dei fermenti culturali spaventosi.
Nel dopoguerra si è cercato di eliminare questo ritardo. La figura del regista, con l’invenzione dei teatri stabili, è stato quello che ha permesso che questo ritardo si colmasse.
È un po’ difficile per voi (si rivolge agli allievi del laboratorio a L’Aquila, ndr) che dovreste essere a conoscenza di tutti i processi precedenti.

Lei, come regista, c’è un attore che vorrebbe dirigere e che non ha ancora diretto?
A.P.: Ma, il rapporto fra il regista e l’attore è un rapporto complicato. Nel senso che se non c’è un feeling naturale diventa molto difficile.
Perchè? Il problema, qual è? Un attore ha la sua storia. E il regista ha la sua storia.
Le cose funzionano quando le storie si assomigliano, o addirittura ancora meglio quando le storie sono state fatte insieme, si è cresciuti insieme. Il grande teatro è sempre stato un teatro di compagnia, che vive nel tempo.
Molière aveva la sua compagnia, così quando doveva chiedere una cosa a un attore ci metteva due minuti.
Se tu incontri un attore che devi dirigere e gli dici “Senti... così, così...”, quello comincia a dirti “Ma, io però, ... io la vedrei in un altro modo.”
E ho capito, si apre un dibattito che non finisce più e il compromesso che si raggiunge è pessimo. Per cui l’ideale delle compagnie, e questo è stato il tentativo anche di Strehler, è di creare...
... (Piccardi riflette velocemente ed allarga la sua riflessione ai teatri stabili, ndr) ma neanche tanto i teatri stabili lo han fatto, di creare... (come se Piccardi ci ripensasse ed avesse l’illuminazione!, ndr) forse Genova, Genova lo ha fatto e infatti i risultati sono stati straordinari, no? Eros Pagni,... Insomma è nato un gruppo di attori che si conoscevano con un regista, aderivano alla proposta del regista. E il regista a sua volta non è che non ascolta l’attore quando c’è sintonia e cammino simile!
Se non c’è questo...
(Poi il maestro ritorna velocemente col pensiero alla domanda precisa che gli avevo posto e dice chi vorrebbe dirigere, ndr)
Vorrei dire la Paiato (Maria Paiato, ndr). Ecco, la Paiato per esempio mi piacerebbe dirigerla. È un’attrice che prosegue la sua strada, va dritta ... Andate a vederla perchè è la più brava in questo momento. Sta al Piccolo Eliseo (dall’11 al 23 ottobre 2011, Maria Paiato è stata in cartellone al Teatro Piccolo Eliseo “Patroni Griffi” di Roma con lo spettacolo “La Maria Zanella”, diretta da Maurizio Panici, spettacolo con cui nel 2005 ha vinto il premio UBU come miglior attrice, ndr). È un’attrice che fa tutto, “parla”, è piena di verità e di emozione profonda.
Ecco, con lei ho cercato anche un’intesa, ... son sicuro che ci incontreremo... Lei ha visto anche come lavoro...
(Poi Piccardi si ricollega alla premessa che aveva fatto sulla difficoltà dell’intesa nel lavoro tra attore e regista, ndr)
... Perchè altrimenti si perde tempo, si perde tempo. E allora io preferisco in questo periodo...
Non ho fatte tante regie, anche perchè non le ho cercate. Perchè l’idea di mettermi lì a dover lottare con l’attore... No, no, no, preferisco far laboratori... Che nascano delle cose...!
Poi, il problema è quello di creare le condizioni perchè nasca qualcosa di creativo, sennò...
... Ho fatto uno spettacolo ultimamente, ho fatto la “Elena” di Euripide (con Marianella Bargilli, 2011, ndr), che è fantastico, dove c’erano degli attori... ci siamo abbastanza incontrati. Allora è stato produttivo.
... Sennò è una vita che io ho preferito evitare. Non mi sono dato da fare perchè io, insomma, come regista ho un certo nome,... insomma sono conosciuto nell’ambiente. Basta che vada da un attore piuttosto che da quell’altro, si mettono insieme i nomi, si fanno delle operazioni culturali...! Io come regista non è perchè c’ho la regia “di Piccardi” mi fan fare lo spettacolo,... Però se tu ci metti l’autore, ci metti l’attore giusto,... allora l’operazione va in porto.
A volte succede che c’è un’intesa. Ma spesso succede che... (il maestro Piccardi, come sua usanza, lascia un sottinteso, ndr)
Allora il regista diventa un “allestitore” che allestisce, mette in scena le cose eccetera, gli attori fanno quello che gli pare. Il risultato spesso è noioso.

E invece c’è un personaggio teatrale che vorrebbe interpretare e ancora non l’ha fatto?
A.P.: Sì, c’è. Uno l’ho fatto. Una mattina mi son svegliato ho letto un testo. Non recitavo da vent’anni. Ho letto un testo che è “La sonata a Kreutzer(tratto da Lev Tolstoj, ha debuttato nel 2007, ndr), che non avevo ancora letto, e ho detto “Lo devo fare”.
E l’ho fatto subito. Ho trovato subito l’occasione di farlo.
La determinazione è importante, sappiatelo!
Ho fatto un monologo di un’ora e venti dove non mi ricordavo niente fino alla prova generale. C’era mio figlio che faceva le musiche... Ero terrorizzato perchè io non sapevo niente. Sai che vuol dir “niente”? Però io ero tranquillo... E poi alla fine l’ho detto, insomma.
Mi piacerebbe fare una cosa che è un testo bellissimo. Non è un testo teatrale, è una riduzione dell’”Eterno marito” di Dostoievskij.
Vi consiglio di leggerlo.

Secondo lei qual è il motivo per cui qualcuno al giorno d’oggi sente il bisogno di recitare? Cioè nell’antica Grecia il teatro era una pratica sacerdotale legata al caprio espiatorio, al Tempio, agli eventi dionisiaci... E quindi era una procedura sociale... Al giorno d’oggi le cose sono un po’ cambiate. In particolare, c’è un’intervista a Vittorio Gassman in cui egli dice che la verità non è che si recita per guadagnarsi il pane, ma “si recita per mentire, per smentirsi, per essere diversi da quello che si è. Si recitano parti di eroi perchè si è dei vigliacchi. Si recitano parti di santi perchè si è delle carogne. Si recita perchè si è bugiardi fin dalla nascita. E sopratutto si recita perchè si diventerebbe pazzi non recitando.”. Lei è d’accordo?
A.P.: È tutto vero quello che dice Vittorio! Poi, se ci fosse qualcosa che non son d’accordo non lo direi!
Ma, è tutto vero! Sopratutto perchè si è bugiardi fin da ragazzini.
C’è questo libro di Declan Donnellan (“L’attore e il bersaglio”, Dino Audino editore, Roma, 2007, ndr) in cui egli dice che recitare è una cosa che fa parte del naturale dei ragazzini: fan le parti, giocano i ragazzi con la mamma, ci si nasconde, poi si appare, ...
Non è un abito che uno si mette addosso in più. È un abito naturale.
Per cui, credo che si tratti di ritrovare questa disposizione, eliminando tutte le zone che ci impediscano di ritrovare questa capacità di essere e di giocare.

Secondo lei, per un attore, il teatro è un’attività “sado-maso” in cui c’è sempre un dittatore e una vittima - rispetto a un’idea oppure rispetto a una persona (regista o attore o personaggio)?
A.P.: Ma per esempio ci sono degli attori che amano essere sadicamente intrattenuti dal regista.
A me è sempre risultato molto... non mi serviva, mi chiudeva, mi faceva offendere.
Credo che un attore deve sentire la condizione di... deve vivere questa condizione di apertura sul palcoscenico, deve essere padrone di sé stesso e dello spazio. Se ci sono questi elementi di sadismo spesso impediscono che questo avvenga.
Però sono opinioni, eh!
Gassman sicuramente era un sadico nel senso che tirava oggetti contundenti durante lo spettacolo alla moglie e la figlia tanto che loro han minacciato uno sciopero perchè dice “No, se tu fai così noi non recitiamo”.
Se non rispettavano certe regole, dava i numeri.
... ma aveva quasi sempre ragione, eh! Non è che avesse torto.
Però insomma... Io la penso un po’ diversamente, ma non è mica detto che abbia ragione io. Il teatro si fa in tanti modi. Quindi, ... bisogna creare le condizioni perchè le cose nascano.
Se uno è terrorizzato... sì può rifare quello che si vive fuori...
Ci sono alcuni attori che amano essere terrorizzati.
Ma questo fa parte dell’essere umano.

Al giorno d’oggi quale è in Europa il Paese in cui il teatro ha più importanza sia qualitativa che quantitativa?
A.P.: Eh, il Paese che ha più importanza... sono i Paesi di grande... come dire?, che si sono dati delle strutture stabili, dove l’influenza della politica è minima. O, sì, quel poco che è necessità che ci sia.
Strutture come... la Germania o la Francia che hanno una cultura, hanno teatri pubblici che vengono diretti da giovani registi bravi. Come per esempio la Schaubühne: c’era un giovane regista che si chiama Peter Stein che nessuno conosceva e che pare che sia straordinario...
Cioè ci sono alcuni Paesi che hanno creato delle strutture stabili.
Qui, non c’è niente di stabile!
Quando pensiamo che un teatro stabile (come questo di L’Aquila) che ha creato, che si è dato un’identità, che ha creato scambi culturali, che ha prodotto spettacoli di eccellenza ... e così, fa fatica a mantenere la propria identità e la propria funzione, ...
...Perchè poi arriva il politico e dice: “Ma no, ma lì perchè lei..., perchè forse questo, quest’altro...”, cioè si scatenano tutti questi interessi che nulla hanno a che fare con...
I direttori artistici ormai non si fanno più... fanno cose loro...
È una roba...!
Non c’è più gente che si sa prendere una responsabilità... di creare dei progetti... e di dare dei compiti prendendosi la responsabilità! È tutto un po’ così: “lì ci mettiamo quella”...
È diventato veramente molto faticoso... Parlare d’arte diventa sempre più difficile, questo è il fatto!
Ma voi siete proprio in questa condizione di grande precarietà.
Io ho fatto il ’68,... però a un certo punto le istituzioni vanno create, perchè sennò si infilano tutti ‘sti marpioni, no? Invece vanno create e si devono dare della responsabilità.
Il limite del ’68 è stato quello: che a un certo punto non ha fatto il salto verso la coscienza di prendersi delle responsabilità anche di gestione della cosa pubblica e delle sue istituzioni. Va be’, ma insomma aveva anche altri ...
Altri tempi!
Però, per esempio questo: come cooperativa teatrale, lì abbiamo sbagliato!
Perchè a un certo punto il teatro italiano era in crisi. I grandi attori erano in crisi perchè stavano nascendo le cooperative. Si facevano belli / brutti spettacoli, però le cose, come dire?, “brucianti”, le cose che avevano un senso, le facevamo noi.
Non siamo stati capaci (più che il ’68, proprio noi – Piccardi si riferisce ai teatranti in genere, ndr) di creare il passaggio successivo. Cioè di diventare “istituzione”.
Quello che è successo a Berlino con la Schaubühne, no? È nata così la Schaubühne: era una compagnia di attori con un grande regista come Peter Stein...
(Poi, quasi a trovare una giustificazione o a rivendicare un’importanza ed equivalenza dei teatranti italiani rispetto a quelli tedeschi, torna a parlare dell’Italia, ndr) Ma, insomma, noi avevamo il nostro (potrebbe essere in dubbio se per “nostro” Piccardi intendesse riferirsi all’Italia, oppure al Gruppo della rocca di cui facevano entrambi parte, ... ma data la notorietà di Roberto Guicciardini, credo sia giusto lasciare il dubbio in sospeso, perchè forse si riferisce a entrambi, ndr) Giucciardini, ... il Marcucci (Egisto Marcucci fu un altro esponente del Gruppo della rocca, ndr)...
(Per poi continuare a spiegare come Schaubühne ha raggiunto i suoi scopi a differenza degli uomini di teatro italiani, ndr) È nata così, la Schaubühne. Poi, a un certo punto han detto: “Noi abbiamo bisogno di essere riconosciuti come istituzione. Lo Stato ci deve dar questi soldi”. E la Schaubühne ha continuato ad andare avanti.
I gruppi delle cooperative (cioè in Italia, ndr) non hanno avuto il coraggio di darsi questa concezione dirigenziale del movimento,... perchè il movimento c’era ed era forte, perchè c’erano Carlo Cecchi, c’erano le compagnie di teatro-insieme, c’era il Gruppo della rocca (cooperativa teatrale fondata nel 1969 da un gruppo di attori, registi, organizzatori e tecnici di diversa provenienza e di cui Piccardi fece parte dal ’69 all’80, ndr), c’erano ... poi Franco Parenti... il teatro italiano era quello!
Allora a un certo punto uno va al Ministero e dice: “Noi vogliamo tot. sovvenzione”.
Lì ha giocato una funzione molto negativa il partito socialista (questo lo devo dire!) perchè c’è stato a un certo punto una ... (che sono scelte, io non metto in discussione niente).... però a un certo punto il personale politico, non solo il partito, ma il personale politico in generale ha scelto di privilegiare i teatri stabili.
Guazzotti era dentro al Gruppo della rocca, a un certo punto è andato lì e è diventato direttore (Giorgio Guazzotti, organizzatore e critico teatrale, dopo aver collaborato al Piccolo Teatro di Milano, fondò, nel 1962 il Teatro Stabile di Bologna; poi diresse il Teatro Stabile di Torino e Astiteatro, ndr).
Però, io mi ricordo che all’interno del Gruppo della rocca noi dovevamo aprir un teatro a Milano...! E invece... invece, non c’è stato questo coraggio. Cosa che invece Strehler e Paolo Grassi hanno fatto, capite? E si sono posti come un punto di riferimento istituzionale importantissimo in un progetto politico e culturale.
E allora poi nel tempo le cose...
Mica che è stata facile la loro battaglia. Io mi ricordo quando facevan il “Galielo(regia di Giorgio Strehler, 1963, ndr) c’era tutta la nazione, dalla Chiesa, ... a tutti, che erano contro! Contro! C’era una guerra spaventosa a reggere. Lo scontro è stato durissimo. Però insomma, lì sono nate cose! Capite?
Quindi, ... credo che questo passaggio sia mancato tant’è vero che poi (io per primo) siamo usciti dal Gruppo della Rocca perchè c’eran delle divergenze, insomma un insieme di cose che hanno portato poco per volta allo spegnersi, come dire, di un progetto che poteva essere molto importante e anche molto indicativo per la storia italiana.

Grazie, Maestro!